Un certo incanto

Testo Critico | F. Gualdoni

Ha titolo “Dimora sicura” una scultura di Rita Siragusa. É del 1997. Come un cerimoniale di passaggio; un tempo, si sarebbe detto crisi di crescenza.

Il gusto per la struttura collidente, catturata su squilibri ed evidenze di “pondus”; la sagoma nitida, che solca lo spazio quasi per aggressione centrifuga; il sapore di lacerto degli elementi, come brani residui e ormai adespoti d’un altro esistere, che si ritrovano necessari in un officina del possibile. Tutto questo, c’è, figlio ancora evidente di un magistero vicino, Igino Legnagli, e di amori precisi, David Smith, William Tucker su tutti .

Ma c’è dell’altro, che è indicazione precisa di un carattere, oltre che di una vocazione conclamata. É il piglio forte, autorevole, diretto d’approccio al materiale, quell'avvertirlo come sostanza per appropriazione sensuale: bruschezze e incanti, fascinazione e visionarietà sottile. É, soprattutto, quella suggestione di dimora che, da evocazione heideggeriana conficcata nell’animo d'ogni scultore, si fa nel lavorio di Rita - che avverti intellettualmente minuzioso e confidente, per rimuginii successivi che inducono la forma a nascere da dentro, in modo sovranamente aprogettuale - vera e propria condizione di intimità poetica, un modo lieve, demateriato verrebbe da dire, di pensare l’apparire della forma allo spazio, per pensieri che si consentono segretezze e struggimenti, salvo poi trovarsi, diretti precisi incontrattati, nel bronzo, nel ferro.

In questi elementi è, in sintesi estrema, il nucleo sorgivo dell’essere scultore di Siragusa: in quel tocco, in quel concentrarsi ed effondersi dei sensi, in quelle levità che si fanno forza.

Quella è stata, per rimanere a un sintetico à rebours, la stagione di svolta alla maturazione definitiva; quella, per intenderci, in cui l’artista ha saputo la propria personalità, passando da speranze a volontà. Guardo “La pausa”, 1999, o “Sfogliando le pagine”, 2001. É ancora quel carattere, ormai fatto spinta vagamente ansiosa a catturare forme decisive di figure mentali, tra echi d’organico e un rapporto fatto ancor più complesso con le sagome, sino a volersi una sorta di purificato, ma non decostruito, disegno spaziale.

La maturazione, ora, è compiuta, in una serie di lavori insieme irruenti e rigorosi, frutto di un’acribia formidabile nel vagliare allo stremo ciò che, del suo inventare, poteva esser retorica dell’arte ,e ciò che davvero era spinta incoercibile alla forma.

Siragusa ha posto da parte la suggestione del metallo ossidato, dalle superfici crepitanti e dilavate,così come l’eroismo del peso, del volume, della dismisura. Si è chiesta cosa, davvero, le importasse e si è risposta: lo spazio.

Dunque, su questo ha lavorato. Sullo spazio, cioè sulla dimora, sulla qualità che rende “le vide” non più il vuoto, ma una condizione complessa che si dipana in relazioni, forme davvero concrete (fisicamente,e bauhausianamente) e rapporti capaci di farsi introversissimo racconto, misura del pensabile.

Siragusa ha fatto collidere un' idea antica quando l’arte, la tarsia di materie, reso in sé indifferente da una concezione puramente plastica. Ha concepito, così, luoghi fatti primariamente di spazi, fatti di materie dalle consistenze, dalle evidenze superficiali e luministiche, dai sapori diversi, siano essi la lamina metallica variamente polita o quella plastica.

Ha lavorato sulla forza oggettiva di quelle linee confinarie, sullo scarto tra colori e sostanze; rese, quelle linee, davvero rapporti di forza tanto quanto snudati meccanismi del pensare differenza. Ha lasciato che tali intarsi si articolassero, espandendosi, a farsi organismo strutturato, accettando la propria “shape” complessiva a sua volta irregolare, quasi un eco dell’antico “hard edge” ma questa volta non involvente i rapporti tra forma artistica e ambiente, bensì riverberante l’interna spaziosità della forma plastica verso l’esterno, in un “philum” teoricamente illimitato.

Osvaldo Licini chiamava “archipittura” un certo suo ritmo semplice di geometria piana. Plasticamente –aggiungeva- mi sembra stia meglio in piedi e, per quanto poco apparente, ne emana un certo incanto…”. Ritmo, per restare alle citazioni, fatto di segni non sogni. Ma, soprattutto, d’incanto, appunto, un certo incanto. Presente, non apparente. Come in queste opere di Siragusa, liciniana d’anima prima ancora che dei modi.

Flaminio Gualdoni (Cuggiono, Milano, 1954). Photo Credits: André Villers.
Flaminio Gualdoni (Cuggiono, Milano, 1954). Photo Credits: André Villers.