Di una luce nell'ombra

Testo critico | di Marco Goldin

Con un poco di vento la sera, arriva l’ultima luce. Che si sparge sulle cose, incontrando le super ci del mondo. E si mescolano luce e vento, giorno e notte, memoria e futuro. E tutto si mostra come una grande armonia, un vasto suono, un lume che ugualmente ha l’incanto dell’alba sorgente e di un ultimo bagliore. E su queste super ci di luce e d’aria si posano, penetrandovi e diventando esse stesse materia, le storie della vita. Uno specchio che riluce ma ugualmente si lascia abitare. Riflettente e includente a un tempo. Così solo la materia diventa un’apparizione, un silenzio, un destino. Risponde a colui o a colei che la interrogano da una profondità non conosciuta, e ne annunciano anzi il mistero, il fascino ineludibile.

In questo modo Rita Siragusa lascia che le sue sculture nascano da simili super ci. Hanno l’ambiguità del vuoto e la totale presenza di un pieno.

Sono allo stesso modo luce e vento e loro resistenza. Sono di quella luce e di quel vento l’attimo dello spasimo e la dilagante attesa. Mobili e immobili, lo splendore del sole e l’arrivo della pioggia o lo scrosciare di un temporale. Non hanno relazione se non con la vita, i ricordi che essa produce. Sono oggetti perché hanno una consistenza nello spazio e sono dunque visibili, ma subito dopo si pongono come oggetti di una sparizione, di una avvenuta scomparsa. Possiedono queste sculture il senso del doppio. Chi lavora questi materiali, e li rende forza che si spinge verso il cielo, coltiva l’ambizione di fare la materia a propria immagine. Di fare quella materia qualcosa di respirante, riflettente, colma di vita e sentimenti.

Materia concepita dall’amore e mai dalla rinuncia, dalla dichiarazione schietta e non dal nascondimento. Eppure poi sul silenzio si gioca una parte fondamentale di questo lavoro. Che rifiuta l’assenza di parola, non vuole che di un canto sia un balbettio, eppure lascia che quella parola pronunciata si spenga in una lunga eco. E così anziché contare sulla dichiarazione, la scultura si fonda sugli esiti della parola, quintessenza, suo distillarsi appunto in dilatazioni di suono, rintocchi, rimandi di voce in voce.

Ferro e acciaio si confrontano. Nell’uno la luce si adagia, sprofonda, si contrae in uno spasmo che è concrezione, presa di possesso. Nell’altro ciò che giunge si specchia, riflette, riluce nella disposizione dell’uno verso un sé che rilancia l’immagine e allo stesso modo rilancia voci e silenzi. Davanti a questi specchi muti e dialoganti giunge una figura. Colei che viene prima della creazione, le dà un senso facendo diventare la creazione una cosa infine creata, con quest’atto conquistando al pensiero l’azione. Artista per questo motivo, poiché accende il fuoco e con quel fuoco forgia, indirizza gli esiti della materia. Prima di tutto permette che la materia abbia esiti.

Che sia respiro e felicità, sia rimpianto e sconquasso, sia adagio a rimembranza.
Di un mondo in equilibrio, parlano queste recenti sculture di Rita Siragusa. Con esse si ritaglia lo spazio, si conquista quel buio che è fatto piuttosto d’ombra, perché nella loro intimità vive una luce. Una luce d’ombra, come il lume basso, mai perfettamente nitido, di una candela. Eppure la fiamma resta lì, sospesa nell’aria, a illuminare per quel teso istante ciò che passa e si fissa, ciò che trascorre e scompare. Tutto, del passato e del futuro, è detto. Nella sostanza di un presente nel quale ciò che poteva essere e ciò che sarà, è stato.

Marco Godin, Photo credits: Rui-Fotografo
Marco Godin, Photo credits: Rui-Fotografo