Intervista a Rita Siragusa

Intervista | di Mauro Corradini

Ciò che colpisce nelle tue opere è il materiale; tu utilizzi il ferro, l’acciaio, sovente, specie nelle opere recenti, hai aggiunto il colore. Sono materiali poco femminili, fanno pensare al fabbro dalle grandi mani callose, più che ad una signora, madre di tre figli; e dunque non posso che iniziare dal discorso dei materiali, dal discorso delle scelte di una geometria rigorosa che solo nell’opera diviene leggera poesia.

Io... affamata, nell’intensità di un’energia piena. Ho sempre le mani callose e ho voluto essere madre ardentemente. Ho sempre insistito e scelto con convinzione il mio mondo.

Niente deve far parte della consuetudine, dell’ordinaria quotidianità del vivere. Sento in me il bisogno di conoscenza, la necessità di approfondire e continuare; non posso fermarmi: proseguire è quasi una necessità. Non posso (o non voglio) tralasciare alcunché. Voglio assaporare tutto cogliendo l’essenza delle cose, della vita: sono sempre di fronte al dunque, al punto e a capo; ma poi non vado mai a capo. Ogni volta che mi applico, che mi viene un’idea, produco un’enorme quantità di disegni; tutto ciò che mi passa per la testa finisce su un foglio. E vorrei realizzarli subito, e subito tutti; poi devo scegliere e devo dar priorità a quelli che sento in me come i più irresistibili. Da qui anche un senso di insoddisfazione, quel fare un po’ alla volta mi deprime. L’intesa con i metalli è una specie di amore: divora i miei disegni per trasformarli in forma. È come un’immagine impressa nella mente che mi perseguita e che devo realizzare.

So che ho solo in parte risposto alla tua domanda; ma dovevo avvertirti, metterti sulla strada di quel che mi sta dentro; e cercare, per te, per me, per quelli che leggeranno questo testo, di rendere comprensibile la smania creativa che solo i metalli –maschili, dici tu-, possono suscitare.

Partiti dalla materia approdiamo all’immagine (cui hai già fatto ampio cenno). Ti muovi all’interno di quel percorso che oggi stilisticamente definiamo “astrattista”: difficile pensare che sia sempre stato così. Vuoi parlarci del tuo percorso che, per quanto breve, supera ormai il decennio (dai tuoi dati biografici, sei una protagonista precoce della linea plastica).

La mia ricerca continua; e viene ormai da lontano. È vero, sono ancor giovane, ma ho già una lunga strada alle spalle. Ascolto il mondo, ma non cambio nel “mio” mondo silenzioso. Le mie sculture sono mutate negli anni; dove le colloco, s’impadroniscono del luogo.

Senso geometrico. La natura mi coinvolge. Penso al tempo che scorre senza mai una tregua. Ciò mi turba. La natura è importante, tutto ciò che mi sta intorno è importante, assolutamente scrutato da me e amato. Nelle prime opere esprimevo anche una sorta di verosimiglianza; poi tutto è cambiato. Nella mia scultura incontro l’ aria, la luce rosa, arancione, grigia, compatta: qui comincia la mia metamorfosi. Per me tutta questa trasformazione, che avviene una decina di anni fa (ero ancora a Brera) è limpida, lineare direi.

Il mio lavoro ha cercato una diversa immagine perché era luminoso; ora è splendente anche al buio. Una scultura d’ impatto. Aurea. Tutto rientra nell’ordine e nella geometria; tutto il mondo fuori viene assorbito, si espande nel colore. Sento in me il sollievo (forse la gioia e l’inquietudine) di uno spazio vuoto. La mia ricerca astrattista si è misurata con questi ritmi. Oggi tendo ad inserire la mia immagine in movimento dentro le opere; nascosta mi propongo nell’opera; sono presente, sopra, sotto, in giù in su, fuoriesco, spio, studio, rientro e mi diverto.Solo entrando nell’opera, capisco quello che devo scartare. La fabbrica è il mio laboratorio, dove assemblo, provo equilibri, mi sporco le mani; spesso mi ritrovo anche in fonderia: un altro modo di essere scultrice.

Come tutti gli artisti, anche tu hai dei “padri”, dei riferimenti, fors’anche mutevoli nel tempo: vuoi indicarci quelle dai quali hai tratto di più, ma soprattutto perché ti hanno attratto di più? Vuoi discorrere della tua poetica, di quel tuo muoverti tra le forme, cercando una stabilità negli squilibri o, più ancora forse, l’equilibrio instabile che sembra alludere alle nostre fragilità. Vuoi aiutarci a leggere in quello sguardo che partendo dalle forme, giunge al cuore dell’uomo?

Ho sempre pensato che uno dei fondamenti della ricerca, della mia ricerca, fosse anche quello di autori (non necessariamente scultori, o solo scultori) che avevano molto da darmi, conoscere anime più forti. Amo l’essere acuto, capace di vedere oltre.

Quelli che sono, che pensano, che vedono nella forma la vita, ti danno informazioni che nessuno può darti, anche quando parlano d’altro; ti danno consigli, stimoli; con loro prosegui senza perderti.

Nel mio cammino sono stata fortunata; ho avuto maestri “speciali” fin dal liceo artistico che ho frequentato a Brescia: penso a Tullio Cattaneo, che mi ha fatto amare la scultura. Poi a Brera ne ho incontrati altri; e sono stata di nuovo fortunata ad incontrare alcuni degli scultori (insegnanti anche) tra i più bravi, traendone il massimo: Igino Legnagli mi ha portato alla laurea, e poi Rodolfo Aricò, Paolo Minoli.… Ma a Venezia, ricordo che ho fatto pazzie per parlare con Vedova, per vederlo nel suo laboratorio.

L’arte è conoscenza; si trova in tutti i luoghi, se li sai trovare. I miei viaggi mi portano nei grandi musei, nei musei del moderno, in questi enormi spazi modernissimi bianchi: leggo il passato, quando c’è, ma sono attratta da ciò che non conosco, dalle ultime acquisizioni; qui mi fermo: sono anch’essi, molto spesso, i miei insegnanti, anche se solo per un giorno, o per un’ora. Sono loro, con le loro opere, che mi chiamano; tutti mi chiamano. Io mi fermo e rimango a guardare compiaciuta, interessata, perduta nelle nuove forme che non conosco: ma dopo un po’, di solito, viene uno dei miei bimbi mi trascina all’uscita: è bisognoso d’aria e non posso esagerare. La scultrice vuole anche essere mamma.

Ma i nuovi maestri, come gli antichi, rimangono dentro, continuano a parlarmi, a lievitare; a darmi immagini che rimangono a volte latenti a lungo, ma poi emergono di colpo e giungono a conclusioni in un attimo. Se devo scrivere un solo nome, forse chi più mi ha dato, chi più è stato generoso di consigli, è stato il mio profe d’accademia, che mi ha portato alla laurea, Igino Legnagli. Non so cosa avrei fatto, o potuto fare, se non l’avessi incontrato.

Torniamo all’origine: dove nasce la tua passione per la scultura? Nasci alla scultura o giungi alla scultura, come è accaduto a molti, dopo aver intrapreso l’avventura nel mondo dell’immagine attraverso il disegno, la pittura? Credo sia importante che il tuo percorso formativo, che hai individuato e messo a fuoco anche nella breve biografia che utilizzi per il tuo curriculum, emerga nella sua complessità. Vuoi darci qualche chiave di lettura?

Le mie notti insonni e la mia frenesia del vivere mi hanno portato a lavorare anche di notte; ho un angolo studio nella mia dimora, sicura, silenziosa, priva di tapparelle. La luce notturna, specie quando il cielo è stellato o c’è la luna, si posa sui mobili, sul pavimento, creando delle combinazioni geometriche, invisibili alla luce diurna. Dovresti venire a casa mia, ti mostrerei le luci che entrano e scrivono per me le forme della mia geometria: “Di una luce nell’ombra” è il titolo della mia mostra personale.

E il titolo ha una sua verità! Instancabile giro per casa quando tutto è silenzio e scopro disegnate dall’aria e dalla luce le mie sculture reali! L’invisibile diventa visibile. I toni dei grigi che trovavo e trovo in casa mia, mi hanno fatto subito pensare all’acciaio, come miglior materiale, come soluzione a quest’incanto, a questi equilibrati squilibri.

Quindi acciai specchianti, satinati, i grigi e i neri; infine l’aggiunta di colori pacati, per poi arrivare alle ultime strutture con colori fluorescenti. Specchianti: noi siamo dentro e fuori l’opera, la osserviamo ed entriamo in essa.

Stiamo giungendo alla conclusione di questa chiacchierata; e tu ci hai aperto molte strade prima ancora che nella tua opera, nel tuo animo. A Chiari, in Villa Mazzotti, in questa IV tappa nella scultura del Novecento, presenti alcune forme nuove: come ti collochi nel percorso della storia bresciana, quali legami individui, e quali distacchi; infine: come ti vedi nella ricerca attuale? Quale ambito espressivo ti interessa (e ti appassiona) maggiormente?

Quando Mauro Corradini mi parlò della mostra di Chiari a Villa Mazzotti, fui molto felice; lo spazio che conoscevo, mi stimolava e mi inquietava, come sempre le cose nuove; ma ero felice di poter partecipare. Pensai che potevo inserire un nuovo lavoro, pensando a quel tipo di spazio. Villa Mazzotti mi dà la possibilità di avere due stanze comunicanti; questa situazione mi ha fatto pensare a un collegamento, a un meccanismo che si legasse in una sorta di catena, di processione; dandomi contemporaneamente la possibilità di evolvermi.

Due stanze ricche di decori, impreziosite da specchi, il tutto complicato dalle porti, antiporte, finestre; con un contrasto visibile, tattile quasi, tra la struttura e le mie forme così semplici... ho pensato inizialmente che la scultura più indicata fosse la mia “palladiana”, appoggiata a terra. Qui subentra un nuovo meccanismo, una nuova riflessione; la rivisito, incomincio a immaginare la stessa forma in un’altra dimensione. Ripenso alle mie geometrie notturne… solo adesso mi accorgo di quanta potenza si può trasmettere anche solo ribaltando il punto di vista, mettendo sottosopra una “antica” struttura; ma non bastava: progettando lo spazio ho capito che occorreva altro. Progetto una figura di 5x3 m, sottilissima, con uno spessore di 2 mm, sospesa in verticale: un lato con una forte presenza, un forte candore verniciato a fuoco, bianca; dall’altro lato una superficie specchiante. L’ho costruita e adesso aspetto la mostra; voglio vederla là, per dove l’ho pensata; desidero vederla esposta per documentarla, per farle esprimere tutta la sua potenzialità poetica: quando costruisci qualcosa di nuovo, vuoi vederla collocata, posta in relazione con lo spazio, perché possa esprimere quel nuovo e poetico che possiede.